venerdì 24 dicembre 2010

Come conciliare l'accoglienza e la privacy in reparto - II ed ultima parte - l'accoglienza dei visitatori


Concludiamo la trattazione relativa all'applicazione della privacy in una Unità operativa; questa volta mi occuperò di come accogliere i visitatori nel rispetto della normativa vigente.
Non bisogna infatti dimenticare che, nella maggior parte dei casi, il paziente affronta un momento così angoscioso e delicato come quello del ricovero affidandosi alla compagnia ed al sostegno di familiari, conoscenti ed assistenti a vario titolo, che lo supportano standogli accanto durante visite ed esami, oppure richiedendo informazioni agli operatori.
Una struttura ospedaliera deve dunque essere progettata ed organizzata anche per venire incontro alle esigenze di questi soggetti e per facilitarli nelle loro funzioni di supporto: se, ad esempio, la stanza di accoglienza risulta chiaramente evidenziata da una apposita segnaletica, sarà agevole per la persona che assiste il malato individuarla, anche se quest'ultimo vi è impossibilitato da una qualsivoglia disabilità. Analizziamo i chiarimenti in materia forniti dal Garante per la privacy con il provvedimento del 9 novembre 2005.
1. Il rispetto degli orari di visita.
Relativamente all'accoglienza dei visitatori nell'unità operativa (intendendo con tale espressione esaustiva tutti i soggetti che accedono al reparto, non essendone né operatori né pazienti) si pone da sempre la questione del rispetto degli orari di visita, ribadito anche dalla “Carta della qualità in chirurgia” all'art. 4; è necessario il rispetto di tali orari, ma la disposizione può (e viene già) osservata in modo elastico nei reparti in cui il malato necessita di un supporto psicologico più intenso e costante, come in quelli chirurgici o pediatrici.
2. Comunicazione a terzi di informazioni relative a prestazioni di pronto soccorso per via telefonica.
Nel rapporto con familiari, conoscenti ed assistenti la problematica di più difficile risoluzione consiste però, ancora una volta, nella conciliazione tra l'esigenza di tutelare la riservatezza del paziente ed il bisogno di fornire risposte a soggetti che, anche se non legittimati sul piano giuridico, sono tuttavia a lui legati da rapporti professionali ed affettivi e, in quest'ultimo caso, condividono pienamente l'angoscia e la sofferenza dell'ammalato.
L'esempio classico è quello relativo alla richiesta, per via telefonica, di una prestazione di pronto soccorso: con il provvedimento del novembre 2005 il Garante ha risposto positivamente a tale annoso quesito, stabilendo però che, in tale contesto, le informazioni possono essere fornite correttamente ai soli terzi legittimati, quali possono essere familiari, parenti o conviventi, valutando le diverse circostanze del caso. Il contenuto di questo genere di notizie deve inoltre consistere solo nel fatto che è in atto o si è svolta una prestazione di pronto soccorso, mentre non possono essere comunicate indicazioni più dettagliate sullo stato di salute. L'interessato (se cosciente e capace) deve essere preventivamente informato dall'organismo sanitario (in fase di accettazione) e posto in condizione di fornire i nominativi dei soggetti cui può essere comunicata la prestazione di pronto soccorso. Occorre, altresì, rispettare eventuali sue indicazioni contrarie. Il personale incaricato deve infine accertare l'identità dei terzi legittimati a ricevere la predetta notizia o conferma, avvalendosi anche delle indicazioni fornite dall'interessato.
3. Informazioni rese per via telefonica od al visitatore circa la presenza di un paziente in reparto.
Un'altra ipotesi frequentemente ricorrente nella realtà operativa riguarda la richiesta, per via telefonica o, più frequentemente, da parte di un visitatore, circa la presenza di un paziente in reparto. Secondo l'Autorità, il Codice per la tutela dei dati personali incentiva le strutture sanitarie a prevedere, in conformità agli ordinamenti interni, le modalità per fornire informazioni ai terzi (legittimati) circa la dislocazione dei degenti nei reparti, allorché si debba rispondere a richieste di familiari, parenti e conoscenti. Indicazioni positive, a tal proposito, erano già state fornite dal Garante alcuni anni addietro: (cfr. il parere reso il 26 gennaio 1999).
Negare ogni informazione sulla presenza dei degenti nei reparti ospedalieri, d'altronde, contrasterebbe con la natura del servizio pubblico sanitario, che di norma prevede, entro determinati orari e con precise modalità, la possibilità di parenti, conoscenti e perfino di organismi del volontariato di accedere ai reparti per far visita ed aiutare i degenti. Le uniche eccezioni ammissibili si hanno quando:
  • dalle caratteristiche dell'unità operativa si può risalire agevolmente alla patologia sofferta (basti pensare all'ipotesi del paziente ricoverato in un reparto di psichiatria);
  • quando il degente chiede che la sua presenza non venga resa nota. L'interessato, sempre se cosciente e capace, deve essere, anche in questo caso, informato e posto in condizione (per esempio all'atto del ricovero) di fornire indicazioni circa i soggetti che possono venire a conoscenza del ricovero medesimo e del reparto. Occorre altresì rispettare l'eventuale richiesta che la sua presenza nella struttura sanitaria non sia resa nota a nessuno.
Come per le prestazioni di pronto soccorso, anche in tale ipotesi è lecito comunicare la sola presenza nel reparto, ma non informazioni sullo stato di salute. Queste ultime possono essere invece fornite a soggetti terzi quando sia stato manifestato dall'interessato un consenso specifico e distinto al riguardo, consenso che può essere anche espresso da un altro soggetto legittimato, quando l'interessato si trova in condizioni di impossibilità fisica, incapacità di agire o incapacità di intendere e di volere.
Allorchè il consenso sia stato modulato o negato, l'infermiere, cui sono richieste indicazioni dal visitatore, dovrà, in primo luogo, premurarsi di accertare l'identità del visitatore medesimo (per verificare se rientra tra i soggetti cui possono essere comunicate informazioni); non potendo, in ogni caso, essere impedito l'accesso in corsia e nelle varie stanze di degenza, per evitare che si verifichino situazioni imbarazzanti o spiacevoli sarebbe opportuno che ogni unità operativa limitasse ad un apposito ambiente (salottino) le visite di familiari e conoscenti.
Non sempre, tuttavia, specialmente in un reparto chirurgico, i pazienti sono in grado di deambulare: in tal caso, per salvaguardare la riservatezza possono essere adottati paraventi, oppure può essere chiusa la porta della stanza (sempre che non siano presenti altri degenti).
E' evidente, comunque, che né gli uni né l'altra costituiscono barriere fisiche insormontabili: la corretta applicazione della normativa, pertanto, dipende, in larga parte, dal buon senso e dalla professionalità di tutto il personale di reparto.
4. Consegna a terzi di documentazioni idonee a rivelare lo stato di salute di un paziente.
Il personale designato deve essere istruito debitamente anche in ordine alle modalità di consegna a terzi dei documenti contenenti dati idonei a rivelare lo stato di salute dell'interessato, come i referti diagnostici, di regola ritirati dopo le dimissioni. Rispondendo espressamente alle numerose segnalazioni pervenute, il Garante ha precisato, a tal proposito, che esse possono essere ritirate anche da persone diverse dai diretti interessati, purché sulla base di una delega scritta e mediante la consegna dei referti suddetti in busta chiusa.

lunedì 20 dicembre 2010

Ehi, blogger, che intenzioni hai???

SteacieLibrary
Chiunque voglia fare informazione ha bisogno di fonti. Anch'io navigo da mesi alla ricerca di siti o di documenti che approfondiscano aspetti specifici della normativa in materia di assistenza infermieristica. Mi sono però dovuto scontrare con due ostacoli: il primo è la totale sciatteria con cui vengono gestiti molti blog e siti, spesso aggiornati a distanza di mesi, se non di anni, oppure definitivamente abbandonati (eppure le spese per il mantenimento del dominio vanno rinnovate annualmente!). Si salvano solo le sezioni sul diritto sanitario contenute nei più famosi portali dedicati all'assistenza infermieristica.
Cito, a questo proposito:
L'altro scoglio è l'estrema difficoltà nel reperire materiale gratuito. In primo luogo trovo incostituzionale che le sentenze, emesse “in nome del popolo italiano”, siano consultabili dall'utente comune solo previo pagamento di una somma, spesso non così modica (168 Euro è il versamento minimo da effettuare per accedere, ad esempio, alla banca dati delle sentenze emesse dalla Suprema Corte di Cassazione, vale a dire ItalgiureWeb, su http://www.italgiure.giustizia.it/). Né comprendo la ragione per cui vecchi numeri di riviste del settore non debbano essere digitalizzate e fornite gratuitamente. Perché dovrebbero rimanere a prendere polvere nelle biblioteche? Perché uno studente dovrebbe spendere i soldi necessari anche solo a fotocopiare un articolo di suo interesse, quando potrebbe scaricarne senza aggravi di spesa la versione online?? 
Una valida eccezione è rappresentata dalla rivista "Infermiere oggi", scaricabile dal sito del Collegio Ipasvi di Roma, su www.ipasvi.roma.it . 
Non comprendo se questa frammentarietà di fonti discenda da precisi disegni politici o dal disinteresse degli operatori sanitari; quel che è certo è che ogni ricercatore che intenda occuparsi delle implicazioni giuridiche dell'assistenza infermieristica reperisce le informazioni necessarie a sviluppare il proprio lavoro solo in modo frammentario e con grandi sforzi.
E' per questo motivo che non ho mai desistito dal proposito di mettere a disposizione di chiunque più contenuti possibile sull'argomento trattato in questo blog, sfruttando tutte le mie competenze in materia (vedete pure il mio profilo) e le risorse che ho a disposizione. Non tollero che la cultura, nel mondo di Internet che è ben più libertario di quello normale, rimanga un privilegio ad esclusivo appannaggio di soggetti paganti: deve essere un bene comune.
Sotto questo aspetto, chiamatemi pure "comunista".
Con questo post non intendo pavoneggiarmi: non sono il più esperto in materia ed il mio blog potrebbe interessare a pochi. Nonostante ciò continuerò a profondere il massimo sforzo per perfezionarlo e mantenerlo aggiornato.
Almeno per il mio piacere personale.
Apprezzerò comunque il contributo di quanti, mettendo a disposizione le loro risorse e la loro esperienza, vorranno collaborare con me.

sabato 18 dicembre 2010

Decalogo su come riconoscere e denunciare i segni distintivi di abuso su ospiti di strutture residenziali (e non solo)





La cronaca ci pone spesso di fronte alla realtà di soggetti deboli, come gli anziani od i pazienti psichiatrici, costretti a vivere in strutture fatiscenti, veri e propri lager, e sottoposti a continui maltrattamenti da parte del personale addetto all'assistenza. Negli ultimi tempi il fenomeno ha conosciuto un'ulteriore evoluzione, coinvolgendo alcune badanti, inchiodate da telecamere nascoste mentre si rendevano colpevoli delle peggiori nefandezze verso povere anziane impotenti. Il fenomeno, comunque, presenta un'estensione mondiale ed in alcuni Paesi, come gli Stati Uniti, da tempo vi sono “law firm” (studi legali) con avvocati specializzati nell'assistenza legale in questi casi (medical and nursing malpractice lawyers). Navigando per caso proprio su uno di questi siti (Mininno law office, su www.minfirm.com) ho letto un interessante articolo su come individuare, riconoscere e segnalare i segni indicatori di un potenziale abuso su queste persone (che preferisco chiamare “ospiti”, non essendo sempre affette da particolari patologie). E' destinato principalmente ai familiari di tali soggetti, ma non solo. L'ho tradotto ed integrato, trasformando i 9 punti originari in un decalogo.
Eccolo:
  1. Lesioni da pressione (o da decubito): costituiscono un sicuro segno di trascuratezza. Le lesioni da pressione si formano per effetto della prolungata compressione di tessuti cutanei e sottocutanei tra una prominenza ossea ed una superficie esterna. La cattiva mobilizzazione di pazienti allettati o seduti sulla sedia a rotelle (su cui è sufficiente un'ora per generare lesioni da pressione!) può generare ulcerazioni, più frequenti nei pazienti anziani per effetto della ridotta vascolarizzazione e dunque ossigenazione tissutale. 
  2. Inspiegabili contusioni, bruciature, tagli, distorsioni o fratture: lesioni misteriose come queste possono essere attribuite alla disattenzione, se non a crudeli maltrattamenti nei confronti di ospiti deboli e fragili. 
  3. Cadute in bagno, dal letto o dalla sedia a rotelle, che esitano in lesioni: sono un segno che i pazienti sono abbandonati a se stessi nell'esecuzione di attività, come muoversi dal letto fino al bagno, che possono risultare difficoltose e per le quali necessitano di attenta sorveglianza ed aiuto nell'esecuzione, potendo, in caso contrario, subire facilmente lesioni. 
  4. Disidratazione, malnutrizione o perdita di peso: non sono solo diretta conseguenza di abusi e trascuratezza; questi ultimi a loro volta, possono condurre l'ospite alla depressione, la quale può causare malnutrizione e perdita di peso. 
  5. Elevata rotazione (o numerosi cambiamenti) del personale: aumenta la probabilità che la qualità dell'assistenza sia bassa. Può rappresentare anche un indicatore del fatto che il personale della struttura è sottopagato o sottodimensionato e sottoposto ad eccessivi carichi di lavoro, il che non riduce solo la qualità delle prestazioni erogate, ma incrementa sensibilmente la probabilità di commettere un errore durante le procedure assistenziali. 
  6. Inspiegabili patologie veneree o infezioni genitali, lesioni od emorragie, anali o vaginali, vestiti strappati o macchiati di sangue: si tratta di una realtà purtroppo presente nelle strutture che dovrebbero invece accogliere, assistere e proteggere le persone più deboli. Se vengono rilevati questi segni, occorre denunciare immediatamente l'accaduto all'Autorità giudiziaria, al fine di consentire l'apertura di un'indagine penale. 
  7. Cessione di proprietà, oppure improvvisi cambiamenti nelle volontà testamentarie, nei conti correnti bancari od in altri titoli finanziari, scomparsa di effetti personali di valore: il furto e la frode (talora, si può tecnicamente parlare di circonvenzione di incapace, art. 643 C.P.) sono fenomeni reali e frequenti di abuso compiuto da operatori assistenziali. 
  8. Rifiuto o ritardo nel concedere i permessi di visita, opposti dal personale: Se il personale assistenziale è colpevole di abusi o negligenze, non permetterà facilmente di recarsi a visitare il proprio caro. Spesso, se permettono la visita, rifiutano di lasciare l'ospite solo con i propri parenti, in modo che si senta a disagio e non riesca a trovare la possibilità di confidarsi. 
  9. Ipersedazione o eccessivo uso di mezzi di contenzione: può accadere che l'operatore addetto all'assistenza, principalmente l'infermiere in questo caso, ma anche un operatore socio – sanitario o perfino una badante, possa somministrare farmaci ansiolitici o sedativi non prescritti, oppure aumentarne il dosaggio, per calmare pazienti “oppositivi ed aggressivi”, principalmente malati di Alzheimer o psichiatrici. Si tratta di una pratica che può causare effetti collaterali gravissimi, sino al decesso, a causa dei molteplici effetti collaterali di questi farmaci. L'uso dei mezzi di contenzione deve costituire una misura finalizzata a proteggere l'ospite "aggressivo" da atti lesivi nei confronti propri e del personale; non deve essere dunque concepito come una manovra punitiva.
  10. Sporcizia: trovare un proprio caro, ospite in una struttura, sporco e trasandato è il primo indice di trascuratezza da parte degli operatori. Spesso l'esecuzione dell'igiene è limitata all'area perineale: si consiglia, pertanto, di visionare attentamente altre parti del corpo, come l'area sottomammaria, i piedi, i capelli (anche per l'eventuale presenza di pediculosi) per verificare se l'ospite viene lavato accuratamente. 

In conclusione, difficilmente la piaga degli abusi su questi pazienti verrà debellata. Ritengo anzi che aumenterà con l'incrementare della popolazione anziana. Prestate attenzione ai vostri cari e curatevi di loro, anche quando non vivono più con voi.

mercoledì 15 dicembre 2010

Qualificazione giuridica delle infermiere volontarie della Croce Rossa Italiana

RedCrossNursen
Mentre seguivo l'inchiesta di “Report” del 5 dicembre, dedicata ai (purtroppo numerosi) lati oscuri della gestione della Croce Rossa Italiana, mi sono domandato quale sia, esattamente, l'inquadramento giuridico delle infermiere volontarie (c.d. “crocerossine”) e se la loro qualifica debba considerarsi parificata a quella degli infermieri che hanno conseguito il titolo a seguito degli studi universitari (o regionali, per gli infermieri “di vecchia data”).
Sulla questione il legislatore è intervenuto solo di recente, attraverso l'art. 3, comma 10 della L.108/2009. Il disposto di legge presenta tuttavia una formulazione contraddittoria, che non inquadra in maniera precisa e sistematica la figura dell'infermiera volontaria, né la rapporta correttamente a quella dell'infermiere qualificato come tale per effetto del conseguimento del diploma di laurea. Lecito, quindi attendersi accese controversie che si protrarranno nel tempo. Esaminiamo il comma in dettaglio. Nella sua prima parte, il legislatore equipara senza troppi giri di parole il diploma di infermiera volontaria della Croce Rossa Italiana all'attestato di qualifica di operatore socio-sanitario specializzato (OSSS). Successivamente, però, afferma che, “esclusivamente nell’ambito dei servizi resi, nell’assolvimento dei compiti propri, per le Forze armate e la Croce Rossa Italiana” le Infermiere volontarie della CRI sono abilitate “a prestare servizio di emergenza e assistenza sanitaria con le funzioni e attività proprie della professione infermieristica”.
2june 2007 483
Il riferimento all'emergenza non è casuale, poiché la norma in questione è inserita nell’ambito di legge di proroga della partecipazione italiana a missioni internazionali, contesto nel quale si è dimostrata la necessarietà e l’urgenza dell’intervento di personale specializzato nell'espletamento di funzioni assistenziali. Ci si domanda, tuttavia, la ragione per cui, anziché prevedere modalità diverse e magari innovative di inserimento nei ruoli delle Forze armate di personale infermieristico formato attraverso gli studi universitari, si sia creata l'aberrazione giuridica, tutta italiana, di operatori socio – sanitari che prestano assistenza infermieristica, senza averne tuttavia la necessaria competenza (il corso per infermiere volontarie dura 2 anni anziché 3 come il corso di laurea e le ore di tirocinio sono assai inferiori) e neppure la preparazione specifica in contesti di emergenza – urgenza o nell'assistenza in scenari di guerra. Ripensando alle non solidissime finanze patrie, sorgono subito alla mente considerazioni maliziose sui risparmi che può generare l'impiego di volontari, che per giunta da oltre un secolo affiancano le Forze armate, rispetto all'inserimento di nuove truppe.
Occorre però sottolineare che la norma, benché inserita nel contesto nelle missioni internazionali, non circoscrive le funzioni e le attività proprie dell'assistenza infermieristica all'esclusivo contesto bellico; dall'analisi del dettato emerge che le crocerossine possono ricoprire funzioni assistenziali proprie dell'infermiere anche in tempo di pace e sul suolo nazionale; l'importante è che agiscano sotto le insegne della Croce Rossa.
Fermo restando, dunque, che le infermiere volontarie della CRI, nonostante la denominazione, non possono essere qualificate a tutto tondo come infermiere, poiché non possono iscriversi all'Albo, né possono partecipare a concorsi pubblici accanto a coloro che hanno conseguito il diploma di laurea, permane quest'anomalia che contrasta apertamente con altre leggi dell'ordinamento italiano (mi riferisco in particolare alla L. 43/2006, che stabilisce che la professione infermieristica è soggetta al conseguimento del titolo universitario, abilitante, ed il suo esercizio richiede l'iscrizione all'Albo, che è obbligatoria). Auspico perciò la pronta risoluzione della controversia, nella prospettiva disegnata dalle tante norme che hanno sancito l'evoluzione della figura dell'infermiere, laureato (o diplomato) ed iscritto all'Albo, come UNICO responsabile dell'assistenza infermieristica, (cfr. anche il D.M. 739/94).
Mi domando, comunque, come avrebbe reagito, ad esempio, la classe medica, se fosse stato consentito a volontari, senza laurea in Medicina, di svolgere assistenza sanitaria “con le funzioni e le attività proprie della professione medica”....

lunedì 13 dicembre 2010

"Dottorini" e codici bianchi

ER room after a trauma
Leggo, da alcuni giorni, delle roventi polemiche sorte in merito alla decisione della Regione Toscana di formare un'equipe di infermieri (spiritosamente ribattezzati “dottorini”), attraverso un corso di 180 ore, per affidare loro la gestione dei codici bianchi nei Pronto Soccorso di alcuni ospedali, sulla base del modello anglosassone del “see and treat”, “vedi e tratta”.
L'Ordine dei Medici di Bologna è insorto contro l'istituzione di tale figura, presentando un esposto nelle Procure di Bologna e Firenze contro la delibera autorizzativa, paventando l'ipotesi che quegli infermieri possano esercitare abusivamente la professione medica.
Per quanto ne so dalla lettura degli articoli di giornale, mi sento – mio malgrado – di dover appoggiare questa posizione. In effetti, allo stato attuale delle competenze che la legislazione italiana attribuisce agli infermieri, essi non sono in grado di gestire autonomamente codici bianchi, nonostante il “paracadute” di corsi integrativi, protocolli operativi adottati di comune accordo con i medici e l'assistenza di un tutor in fase di sperimentazione, come previsto nel progetto toscano.
Consideriamo le problematiche concrete che dovrebbero essere affrontate e risolte.
Leggo, tra le altre cose, di “riniti”, “congiuntivi”, “piccole ferite ed abrasioni”.
Consideriamo il caso specifico delle riniti e delle congiuntiviti: 
  1. sappiamo che tali patologie possono presentare un'eziologia virale od allergica: operare una distinzione significherebbe formulare una diagnosi medica, mentre l'infermiere può solo elaborare diagnosi infermieristiche, che sono ben altra cosa;
  2. al di là delle misure igieniche, riniti e congiuntiviti si risolvono prescrivendo farmaci. In Italia, tuttavia, l'infermiere non può prescrivere nemmeno farmaci da banco, al contrario di quanto avviene, ad esempio, in Gran Bretagna, dove è presente la figura, altamente specializzata, dell'“infermiere prescrittore” che può, per l'appunto, prescrivere farmaci, seppur nell'ambito di un ridotto prontuario. E' vero che i farmaci da banco possono essere paradossalmente acquistati da ogni singolo cittadino presso qualunque farmacista senza ricetta e senza ascoltare i consigli di nessun professionista, ma questo è un altro discorso.

Consideriamo, ancora, l'ipotesi delle abrasioni e delle piccole ferite: e se fosse necessario suturarle? Chiudere una ferita attraverso dei punti di sutura è un atto di esclusiva pertinenza medico-chirurgica.
La maggioranza delle prestazioni assistenziali, svolte in tale contesto dagli infermieri, sarebbe quindi illecita o, nella migliore delle ipotesi, inutile, se non supportata dall'intervento del medico.
Benché l'iniziativa toscana sia sicuramente animata da buone intenzioni, in definitiva, prima di scatenare polemiche e creare “dottorini” sarebbe necessario valutare attentamente la praticabilità o meno del progetto, alla luce della normativa vigente, evitando di trapiantare pedissequamente modelli anglosassoni.

sabato 11 dicembre 2010

Le competenze dell'infermiere nel prelievo arterioso

Durante la mia esperienza di tirocinio ho incontrato infermieri abilissimi nell'effettuare il prelievo arterioso, oltre che dall'arteria radiale, da quella brachiale. In genere, inoltre, una volta eseguito il prelievo, il primo operatore disponibile e competente (talvolta anche il sottoscritto) si recava presso l'Unità operativa più vicina dotata di un emogasanalizzatore, allo scopo analizzare il referto, svilupparlo ed infine sottoporlo in visione al medico. Data l'abolizione del mansionario con la L. 42/99, sembra scontato che queste attività rientrino nell'ambito delle competenze infermieristiche: forse non tutti sanno, tuttavia, che l'esecuzione del prelievo arterioso, da parte dell'infermiere, è sottoposta ad alcune restrizioni.
Come chiarito nella seduta del 23 giugno del 2005 dal Consiglio Superiore di Sanità a seguito del parere richiesto dall'Ospedale di Latina, l'infermiere può eseguire il prelievo arterioso, sia in ambiente ospedaliero, che domiciliare, che ancora nell'espletamento dell'attività di assistenza domiciliare (ADI), ma dalla sola arteria radiale.
Nessun dubbio si pone, invece, in merito alla piena competenza dell'infermiere nell'eseguire un prelievo capillare, per esempio al lobo dell'orecchio od al tallone, nei neonati.
Resta comunque assodato che l'infermiere può eseguire il prelievo arterioso solo qualora ne abbia le competenze ed in un contesto in cui sia presente un protocollo operativo che delinei le fasi della procedura e preveda modalità di prevenzione delle complicanze.
Alcuni interrogativi sorgono, poi, relativamente alla procedura di analisi del campione, ovvero l'emogasanalisi vera e propria, da non confondere (come quasi sempre avviene, anche nella terminologia adottata nella realtà operativa quotidiana) con il prelievo arterioso.
In effetti sembrerebbe che l'infermiere non dovrebbe analizzare campioni microbiologici, poiché ciò dovrebbe rientrare tra le competenze del tecnico del laboratorio analisi.
In questo caso, secondo il mio modesto parere, rientriamo in una di quelle “aree grigie” della normativa in ambito sanitario che delinea le competenze tra le varie figura professionali.
La soluzione deve essere lasciata al buon senso: se si ritenesse di dover attribuire al tecnico del laboratorio analisi la competenza esclusiva in relazione alla preparazione di un qualunque campione microbiologico ed alla sua lettura da parte di un apparecchio automatico o semiautomatico, non sarebbe possibile neppure eseguire uno stick glicemico.
Né si potrebbe leggere una VES od eseguire uno stick per la chetonuria, benché, in questi ultimi due casi, la lettura sia operatore - dipendente.
Ritengo, pertanto, che, qualora il campione prelevato non possa essere conservato a lungo, come nell'emogasanalisi (un campione può essere conservato tra 0 e 4°C per 30 minuti al massimo), oppure quando si tratta di semplici operazioni di routine (come, appunto, la lettura di una VES), si possa lasciare campo libero alla competenze infermieristiche. D'altronde, lo stesso mansionario prevedeva che tra queste rientrasse “l'effettuazione degli esami di laboratorio più semplici”.

giovedì 9 dicembre 2010

Come conciliare la privacy e l'accoglienza del paziente in una struttura sanitaria - parte I

I trattamenti medici, nonché l'assistenza infermieristica possono essere pianificati e personalizzati al massimo in funzione della quantità e qualità dei dati raccolti dal paziente al momento del primo contatto, quando vengono compilate la cartella clinica e la scheda infermieristica.
In relazione alla tutela dei dati personali così acquisiti, si impongono, tuttavia, cogenti esigenze di tutela della riservatezza: le informazioni sul paziente devono essere preservate da occhi indiscreti, ovvero da accessi da parte di terzi non autorizzati.
Salvaguardare la riservatezza dell'utente o cliente è ormai un comportamento radicato in ogni settore di attività professionale, nonostante le complicazioni indotte da una normativa farraginosa. Di recente, il varo del “Codice per la tutela dei dati personali” (D.lgs. 196/03) ha introdotto numerose semplificazioni.
Negli anni seguenti all'emanazione del decreto, comunque, non sono mancati reclami e segnalazioni all'Autorità Garante dei dati personali da parte dei cittadini, i quali hanno evidenziato che alcune strutture sanitarie, dei cui servizi usufruivano, non rispettavano le garanzie previste dalla legge.
Tali richieste di intervento, unitamente a clamorosi episodi di cronaca (come la scoperta, in un ospedale siciliano in corso di ristrutturazione, di centinaia di cartelle cliniche gettate nella spazzatura) hanno spinto l'Autorità ad emanare un provvedimento generale, adottato il 9 novembre del 2005, con il quale si è richiamata l'attenzione delle strutture sanitarie pubbliche e private, in ordine alla necessità di adeguare il proprio funzionamento e l'organizzazione alle previsioni stabilite dal Codice sulla protezione di dati personali.
Scopo principale dell'intervento del Garante è stato quello di dare piena attuazione al dettato dell'art. 83 del Codice medesimo, che intende garantire, nel trattamento dei dati personali che avviene nell'ambito di prestazioni sanitarie, il rispetto della dignità della persona ed in particolare di alcune categorie di soggetti

  • coloro che versano in condizioni di disagio o di bisogno (anziani, minori, disabili fisici e psichici);
  • i pazienti sottoposti a trattamenti medici invasivi (tra cui anche quelli chirurgici);
  • i pazienti nei cui confronti è comunque doverosa una particolare attenzione, anche per effetto di specifici obblighi di legge o di regolamento o della normativa comunitaria (ad es. sieropositivi, donne che hanno subito violenze sessuali o che si accingono ad interrompere la gravidanza).

Sono state numerose le prescrizioni di dettaglio e le indicazioni pratiche dell'Autorità, che hanno finalmente fatto luce, dopo tanti anni, su molti passaggi operativi che costituivano fonte di dubbio e confusione tra gli operatori della sanità pubblica e privata.
Molte di queste disposizioni riguardano le modalità di accoglienza del malato.
1. I locali utilizzati per lo svolgimento di colloqui.

Il garante ha evidenziato che l'assenza o l'inidoneità dei locali o delle modalità utilizzate nello svolgimento di colloqui con il personale sanitario (ad esempio nei casi di raccolta della documentazione di anamnesi), possono generare situazioni di promiscuità: occorre pertanto evitare che, in tali occasioni, le informazioni sulla salute del soggetto interessato al trattamento dei dati personali (ovvero il paziente, nella terminologia adottata dal Garante per la privacy) possano essere conosciute da terzi, predisponendo ambienti fisicamente separati dal resto dell'unità operativa mediante porte e muri.
Il rispetto di questa garanzia non ostacola, comunque, la possibilità di utilizzare determinate aree per più prestazioni contemporanee, quando tale modalità risponde all'esigenza di diminuire l'impatto psicologico dell'intervento medico (basti pensare a trattamenti sanitari effettuati nei confronti di minori, durante i quali può perfino essere consigliata la presenza di altri bambini).
Nei locali adibiti ad ambulatori per esami e visite mediche, oltre che all’ingresso dei reparti, è inoltre opportuno affiggere, in apposite bacheche, informative sul trattamento dei dati personali, a caratteri sufficientemente grandi da essere ben leggibili e recanti informazioni semplificate, comprensibili da un’utenza variegata.
Limitarsi a riportare integralmente il contenuto degli articoli di legge, infatti, sarebbe controproducente, poiché essi risulterebbero di difficile interpretazione per la maggior parte dei pazienti e degli altri visitatori; anche qualora fossero intellettivamente e culturalmente preparati ad una simile lettura, ben presto ci si annoierebbe e si distoglierebbe lo sguardo.
2. Adozione di segnali e cartelli.
Nella stessa ottica l'Autorità ha suggerito l'uso di inviti, segnali o cartelli e comunque la predisposizione di apposite distanze di cortesia in tutti i casi in cui vengono acquisite informazioni sullo stato di salute del paziente: l'esempio classico, citato anche nella normativa, è quello delle operazioni di sportello, ma il rispetto di criteri di confidenzialità va comunque osservato in tutte le situazioni che obbligano un gruppo di persone, più o meno nutrito, a rimanere in attesa per un certo periodo di tempo: si pensi all'ipotesi, piuttosto frequente, di una molteplicità di ricoveri nella stessa Unità operativa, nell'arco della mattinata.
3. Chiamata non nominativa.
E' prassi comune, tanto per il personale medico quanto infermieristico, rivolgersi al paziente di turno, qualora via siano più persone nello stesso locale, chiamandolo per nome e ad alta voce, per meglio identificarlo. Secondo l'Autorità, tuttavia, ciò costituisce una palese violazione del diritto alla riservatezza del paziente.
All'interno delle strutture sanitarie devono essere infatti adottate soluzioni che prevedano un ordine di precedenza e di chiamata degli interessati che prescinda dalla loro individuazione nominativa: un'ipotesi è l'attribuzione di un codice numerico o alfanumerico, fornito al momento della prenotazione o dell'accettazione. Ovviamente, tale misura non deve essere applicata durante i colloqui tra l'interessato ed il personale medico o amministrativo: ad esempio, quando l'infermiere assiste il paziente nel suo letto.
Quando la chiamata non nominativa può pregiudicare la tempestività o efficacia della prestazione medica (ad es. in caso di particolari caratteristiche del paziente, anche legate ad uno stato di disabilità), possono essere utilizzati altri accorgimenti adeguati ed equivalenti, come il contatto diretto con il paziente.
A seguito dell'evoluzione della normativa in materia di tutela dei dati personali è stata già abolita quasi del tutto un'altra abitudine in uso, fino a qualche tempo addietro, soprattutto nelle strutture ospedaliere: l'affissione di liste di pazienti nei locali destinati all'attesa o comunque aperti al pubblico, con o senza la descrizione del tipo di patologia sofferta o di intervento effettuato o ancora da erogare (ad es., tabelloni adottati dal personale infermieristico per associare i pazienti presenti in reparto ai relativi posti letto).
4. Grafiche e nota operatoria.
Per il Garante non devono essere resi visibili da terzi non legittimati i documenti riepilogativi di condizioni cliniche dell'interessato, come le grafiche poste ai piedi al letto di degenza.
Attualmente, in ogni struttura esse vengono riposte (insieme alla cartella) all'interno dell'ambulatorio infermieristico od in una stanza apposita, nella quale può accedere solo il personale sanitario autorizzato. Lo stesso si può affermare relativamente alla nota operatoria, che indica il nome del paziente e la tipologia di intervento al quale si dovrà sottoporre in una determinata data.
5. Comunicazioni sullo stato di salute al malato.
Coloro che esercitano una professione sanitaria devono adottare particolari accortezze perfino nel comunicare informazioni sullo stato di salute allo stesso paziente, benché questi abbia diritto, come ribadito anche dalla “Carta della qualità in chirurgia”, di accedere e prendere visione della propria cartella medica durante il periodo di degenza. La trasmissione di informazioni, infatti, può avvenire solo per il tramite di un medico (individuato dalla stessa persona ricoverata, oppure dal titolare del trattamento, vale a dire un dirigente della struttura ospedaliera) o di un altro operatore sanitario che, nello svolgimento dei propri compiti, intrattenga rapporti diretti con il paziente (ad esempio, un infermiere designato quale incaricato del trattamento ed autorizzato per iscritto dal titolare).

Tratterò a breve la problematiche dell'accoglienza dei visitatori e soprattutto del consenso al trattamento dei dati personali, materia già complessa di per sé, ma in ogni caso fonte di molte controversie anche a causa del dettato normativo contenuto nell'art. 83 del Codice.
Per ulteriori approfondimenti si può consultare il sito del Garante, www.garanteprivacy.it .

martedì 7 dicembre 2010

Qualificazione giuridica della cartella infermieristica

La cartella infermieristica costituisce parte integrante della cartella clinica, che comprende anche le registrazioni del personale medico.
Alla luce della recente evoluzione normativa che ha interessato la figura dell'infermiere, la cartella infermieristica è da considerarsi, sul piano giuridico, un atto pubblico, in quanto redatto da un pubblico ufficiale nell'esercizio delle sue funzioni (art. 357 C.P. e 2699 C.C.) nonostante parte della dottrina sia contraria (ad es. Benci - perlomeno sino al 2005 - che qualifica l'infermiere “ufficiale di pubblico servizio”, non riconoscendogli poteri certificativi e la cartella infermieristica “atto pubblico, ma solo in senso lato”, non esistendo, tuttavia, atti pubblici in senso stretto ed in senso lato).
In effetti l'infermiere, in quanto professionista autonomo, al pari del medico, riveste una funzione di evidente interesse pubblico, quale la tutela della salute, nel cui ambito può erogare prestazioni o rilasciare attestazioni che impegnano l'ente per conto del quale opera.
Ai suoi atti, dunque, si può riconoscere una valenza probatoria privilegiata nell'accertamento di una verità giudiziale: la pubblica fede, per opporsi alla quale è ammessa solo la querela di falso ex art. 2700 C.C. Resta fermo che, così come il medico, l'infermiere è da considerarsi pubblico ufficiale qualora sia dipendente del servizio pubblico e durante il turno di lavoro, essendo il rapporto di subordinazione o dipendenza con l'Ente pubblico condicio sine qua non per l'attribuzione della qualifica di pubblico ufficiale (cfr. Cass., Sez. Pen. II, n. 90/186692). Si deve invece riconoscere la qualifica di incaricato di pubblico servizio (art. 358 C.P.) al dipendente privato e di esercente un servizio di pubblica necessità (art. 359 C.P.) al libero professionista.
Nel contesto dell'impiego pubblico, l'infermiere produce atti pubblici allorché certifica quanto svolto nell'esercizio della propria attività di assistenza sanitaria.
Basti pensare, ad esempio, all'ambito del wound care, in cui l'infermiere può certificare un determinato stadio di una lesione da pressione, nonché le azioni di assistenza infermieristica attuate, gli strumenti e le prescrizioni adottate.
Anche la giurisprudenza concorda ormai in tal senso, come dimostrato da due sentenze emesse dal Tribunale di Firenze negli anni Novanta (Pretura di Firenze, sentenza n. 893/1994 e Corte d'Assise di Firenze, sentenza del 14 dicembre 1996), nelle quali il giudice, constatata la carenza delle annotazioni presenti nel diario clinico stilato dai medici, ha integrato le informazioni mancanti, ai fini dell'individuazione delle responsabilità penali, analizzando le cartelle infermieristiche, riconoscendovi dunque la stessa valenza probatoria.
La cartella documenta dunque le attività svolte da un pubblico ufficiale, quale l'infermiere: ad essa possono, pertanto, estendersi per analogia, le disposizioni relative alla regolare compilazione, alla tenuta ed alla conservazione della cartella clinica, contenute nei D.M. 380/2000, D.P.R. 128/1969 e soprattutto nel D.Lgs. 196/2003 (Codice in materia di protezione dei dati personali).
E' da notare che spesso, nella terminologia impiegata in passato dalla dottrina e dalla giurisprudenza, le espressioni cartella clinica e medica coincidevano.
Si tratta, però, di una simbiosi ormai destinata ad essere soppiantata dal concetto di cartella integrata (o sanitaria, secondo le definizioni di alcuni studiosi) multidisciplinare, nella quale convergono le annotazioni relative ad una pluralità di professionisti autonomi e responsabili, tra cui l'infermiere.
Le medesime considerazioni possono essere formulate relativamente alla nozione di cartella infermieristica come atto a sé stante.
Non esiste una legge, né un altro provvedimento che definisca la cartella infermieristica: la sua adozione è comunque già prevista all'art.1 del D.P.R. 225/74 (istitutivo del mansionario, oggi però abrogato) e soprattutto nel D.P.R. 384/90, in cui si prevede l'adozione della cartella infermieristica come elemento di valutazione della qualità dell'assistenza infermieristica.
Anche il contenuto, pertanto, non è definito a livello normativo, ma è comunque desumibile agevolmente dal Profilo professionale e quindi dalla definizione delle fasi del processo di nursing.
Per quanto rileva ai fini della presente trattazione, si può affermare che la cartella infermieristica costituisce un documento finalizzato a rilevare le informazioni relative alle singole persone ricoverate al fine di assumere decisioni per la soluzione dei relativi problemi di salute.
Le annotazioni in essa contenute, sul piano formale e sostanziale, devono pertanto avere carattere di:
  • chiarezza e leggibilità: devono essere il più possibile evitate sigle ed abbreviazioni di impiego non frequente, nonché grafie non leggibili;
  • correttezza formale: le correzioni devono permettere di stabilire quanto sotto riportato erroneamente; è ammessa, dunque, solo la cancellazione con un tratto orizzontale di penna, accompagnata dalla firma dell'autore della correzione. Sono invece da escludersi l'uso del correttore (comunemente denominato “bianchetto”), nonché di passaggi di molteplici tratti di penna, poiché, in queste ultime ipotesi, il giudice ravviserebbe un occultamento volontario della registrazione; potrebbe pertanto configurarsi il reato di falsità materiale in atto pubblico, ai sensi della fattispecie prevista dall'art. 476 C.P.(falsità materiale commessa dal pubblico ufficiale nell'esercizio delle sue funzioni);
  • tempestività o coevità rispetto al momento dell'esecuzione dell'attività assistenziale (cfr. Cass. Sez. Pen., n.18423/2005);
  • veridicità;
  • pertinenza: nella cartella non devono essere presenti apprezzamenti, commenti od opinioni personali di chi lo redige, salvo quelle strettamente inerenti alle condizioni cliniche del paziente ed all'atto assistenziale, oppure le osservazioni del paziente e dei familiari, che però vanno riportate tra virgolette; 
  • completezza;
  • rintracciabilità, intesa come la possibilità di risalire all'esecutore materiale, attraverso la sua firma o sigla agevolmente riconoscibile.

In sintesi, devono riportare, per riprendere una definizione fornita dall'American Hospital Medical Record Association, il chi, cosa, come, quando e perché dell'attività assistenziale.

lunedì 6 dicembre 2010

Sono infermiere!

Lunedì 22 novembre ho conseguito il diploma di laurea in Infermieristica, con la valutazione di 110/110 e lode, discutendo una tesi dal titolo "Le cartelle infermieristiche come strumento per la gestione del rischio clinico", un lavoro a metà tra l'assistenza infermieristica ed il diritto.
Ora posso considerarmi infermiere: per l'ufficializzazione attendo la riunione del Collegio Ipasvi di Pescara in cui verrà deliberata la mia iscrizione nell'albo.
Qualora dovessi ottenere l'autorizzazione della Asl presso cui ho svolto la ricerca, la tesi verrà pubblicata integralmente su questo sito. Speriamo! Nel frattempo inizierò a breve a trattare temi legati al rapporto tra l'infermieristica ed il diritto.

venerdì 29 ottobre 2010

Non so esattamente come ci si debba rivolgere al pubblico quando si crea un proprio blog, nè se ci debba rivolgere a loro chiamandoli "lettori", "utenti" o quant'altro. Ho, tuttavia, le idee molto chiare sul tema da trattare in questo blog: il mio obiettivo è quello di analizzare e commentare tematiche di diritto sanitario, correlate all'attività dell'infermiere.
Sfrutterò in tal senso la mia esperienza: sono laureato sia in Giurisprudenza (titolo che ho conseguito nel 2002 presso la Luiss di Roma) che (a breve, speriamo!!) in Infermieristica presso l'Università "G. D'Annunzio" di Chieti - Pescara. Un percorso bizzarro, penserete. Concordo. Vi rispondo affermando che la vita di ognuno di noi ha uno scopo. Spesso non riusciamo ad individuarlo. Io sono stato fortunato, perchè l'ho compreso a 29 anni, entrando in un reparto di ospedale.
Ringrazio Dio da allora per avermi fatto conoscere la professione infermieristica. Non ho però messo da parte il mio bagaglio culturale in ambito giuridico; per questo ho deciso di impegarlo in sinergia con le competenze infermieristiche apprese negli ultimi tre anni.
Un caldo benvenuto a tutti.